“Salve, la stiamo chiamando gratis, la stiamo chiamando gratis!” – “Stiamo chiamando dalla California, dalla California! Con una Blue Box!”. Immaginate di essere nel settembre del 1971 e ricevere una telefonata con due giovani dall’altra parte della cornetta che vi dicono queste frasi. Anche oggi, se dovesse succedervi una cosa del genere, riattacchereste il telefono scocciati, oppure rimarreste allibiti senza comprendere bene le frasi e pensando ad uno scherzo. Quella persona che rispose al telefono, quel giorno, non poteva assolutamente immaginare che i due giovani dall’altra parte della cornetta, qualche tempo dopo, avrebbero cambiato per sempre la storia della tecnologia. Avrebbero contribuito a cambiare il loro futuro e il nostro presente. Questo editoriale in cui state per immergervi vuole essere un’esperienza di lettura, un omaggio fondamentale ad un uomo che, per me personalmente, è stato di grandissima ispirazione e continua ad esserlo a 10 anni dalla sua morte: Steve Jobs. Mettetevi comodi e godetevi la lettura.
Di articoli su Steve Jobs, ad oggi, ce ne sono a centinaia di migliaia. Di libri anche. Di storie pure. Sappiamo tutto e non sappiamo niente. Abbiamo letto aneddoti tantissime volte, ci siamo ispirati, abbiamo anche solo sentito per sbaglio il suo nome, in un momento o in un altro della nostra vita. Mi piace molto parlare di persone che cambiano il corso della storia, ma qui è diverso, perché questa persona ha fatto parte del mio passato, influenzandolo, prima ancora che esistessero gli influencer di oggi che, con tutto il rispetto, non possono minimamente essere paragonati a persone come Steve. In questo editoriale, omaggio per me necessario, ho deciso di raccogliere alcune storie e fatti che mi hanno particolarmente colpito e che ricordo con grande affetto quasi come se li avessi vissuti io stesso.
10 anni senza Steve Jobs: la Blue Box, il vero inizio di tutto
La Blue Box è stata quel qualcosa di epico che ha sancito l’incontro tra due geni: Steve Jobs e Steve Wozniak. Il loro incontro fa parte di una serie di circostanze concatenate, eventi che sarebbero anche potuti non succedere, ma sono successi. Voi potete chiamarlo “destino”, ma a volte la vita va così, e pensando al passato pronunciamo sempre nella nostra mente frasi come “pensa se quella volta non avessi….etc”. Wozniak, nel 1969, si trovava all’Università del Colorado, ben lontano da dove stava Jobs in quel periodo (California). Tuttavia, il genio dell’elettronica, Woz per gli amici, era un vero “birbante” in quanto solito fare scherzi durante alcune lezioni in cui sapeva già tutto e, di conseguenza, si annoiava. Per questo motivo fu bocciato in un paio di corsi e finì addirittura in libertà vigilata.
Si trasferì al college De Anza per evitare di confessare ai genitori un ultimo grande scherzo fatto ad uno dei suoi ex professori e poi, dopo un anno in quel college, ebbe bisogno di fare un po’ di soldi e quindi trovò lavoro per un’azienda che produceva computer per l’ufficio della motorizzazione; poco dopo, un suo collega, riconosciuta la sua genialità, gli chiese di costruire uno dei computer che aveva progettato sulla carta: detto fatto, Woz usò il minor numero di chip possibili per sfida e gusto personale e fece gran parte del lavoro nel garage di Bill Fernandez, un amico che abitava vicino alla sede di lavoro di Wozniak e che frequentava l’Homestead High, lo stesso college di Steve Jobs. Quando Woz finì di assemblare quel computer, l’amico Bill, visto il grande lavoro fatto, gli disse che al suo college c’era un ragazzo che doveva assolutamente conoscere: era geniale, sveglio, amava fare scherzi e costruire apparecchi elettronici. Fu l’inizio di una grande amicizia, a tratti difficile, l’inizio di qualcosa che i due giovani non avrebbero mai potuto immaginare, l’inizio di Apple prima ancora di pensarci e ben prima di arrivare a quello storico garage nel 1976.
La Blue Box fu la massima espressione di “scherzi” combinando menti di due persone abituati a farli e soprattutto “gente come noi”, perché in fondo tutti siamo stati giovani, tutti ci siamo divertiti, tutti abbiamo fatto scherzi, ma la Blue Box non può essere paragonata ad un po’ di dentifricio sulle labbra di un amico mentre dormiva, ad uno sgambetto o alle puntine sulla sedia della professoressa (tutti “grandi classici”).
Tutto partì da un articolo che Wozniak ebbe la possibilità di leggere su un numero di Esquire del settembre 1971 intitolato “Segreti della piccola Scatola Blu” di Ron Rosenbaum che spiegava come gli hacker e i “phone phreakers” avessero trovato un modo per fare telefonate interurbane completamente gratuite replicando i toni che instradavano i segnali di rete della nota compagnia telefonica AT&T. Scordatevi la crittografia, la doppia verifica e altri sistemi che ad oggi fanno parte della sicurezza informatica odierna, all’epoca si poteva fare molto con grande genialità (si, anche oggi, ma è sicuramente più difficile).
Wozniak chiamo Jobs per leggergli l’articolo, descrivendo il progetto come “da replicare“, citando anche John Draper, un hacker chiamato “Captain Crunch” perché era riuscito a scoprire che il suono del fischietto che veniva regalato in una confezione di cereali per la colazione aveva la medesima frequenza di 2600 hertz usata dai commutatori utilizzati per l’instradamento della rete telefonica, riuscendo quindi ad ingannare il sistema per far passare una telefonata interurbana senza far scattare la tariffa extra.

La sera stessa di quella telefonata, i due si erano già messi in moto: Woz aveva recuperato tutto il materiale elettrico alla Sunnyvale Electronics prima che chiudesse, dall’altra parte, Jobs aveva già fabbricato un frequenzimetro tempo prima, durante la sua esperienza all’Explorers Club di HP, dispositivo che quindi utilizzarono per calibrare i toni desiderati. Sfruttarono un disco combinatore per replicare e registrare su nastro i suoni specificati all’interno dell’articolo, decisamente descrittivo, e a mezzanotte erano già pronti a collaudare il dispositivo. Non funzionò subito, ma grazie al frequenzimetro di Jobs riuscirono a capire la problematica. Era necessario fabbricare una versione digitale di quel componente, cosa che Woz fece una volta arrivato a Berkeley, la sua terza università, a partire già dal giorno dopo. Steve Wozniak utilizzò dei diodi e transistor provenienti dal negozio Radio Shack e, grazie all’aiuto di uno studente di musica del suo dormitorio, riuscì ad ultimare il dispositivo prima del Giorno del Ringraziamento. Fu un’impresa incredibile, la prima grande impresa dei due.
Una sera, per collaudarlo, Woz andò a casa di Jobs e tentarono di telefonare allo zio di Wozniak, che viveva a Los Angeles: sbagliarono numero, ma poco importava, perché la Blue Box aveva funzionato. Dall’altra parte della cornetta rispose un signore che sentì i due giovani eccitati per la loro creazione pronunciare le parole “Salve, la stiamo chiamando gratis, la stiamo chiamando gratis!” – “Stiamo chiamando dalla California, dalla California! Con una Blue Box!”.
“Salve, la stiamo chiamando gratis, la stiamo chiamando gratis!” – “Stiamo chiamando dalla California, dalla California! Con una Blue Box!”
La vena scherzosa dei due continuò ad essere presente, tanto che, poco tempo dopo, i due utilizzarono la Blue Box addirittura per chiamare al Vaticano per parlare con il Papa: Wozniak si finse Henry Kissinger e disse che desiderava conferire con il santissimo: “Ziamo al zummit di Mozca e noi avere bizogno di parlare con Papa“, imitando l’accento tedesco di Kissinger. Gli fu risposto che erano le 5 e mezza del mattino e che il papa stava dormendo. Non riuscirono mai a parlare con il Papa, perché al Vaticano capirono che Woz non era Kissinger.
Fu in quel momento che uscì la vera anima da venditore di Jobs, caratteristica che avrebbe rivoluzionato Apple (e non solo) qualche tempo dopo: Steve decise che quella Blue Box era geniale, andava assolutamente venduta, motivo per cui mise insieme vari componenti, creò una scatola e iniziò a capire a quanto si poteva vendere, per poi andare a bussare alle varie porte dei dormitori per poter proporre l’oggetto dimostrando da subito il funzionamento e spacciandolo come dispositivo per telefonare gratis. Riuscirono a produrre circa 100 Blue Box, e le vendettero quasi tutte.
Cos’è il genio? Eccone una dimostrazione: partire “dal basso”, un’idea, un’ispirazione, la voglia di fare, la caparbietà di proporsi, la furbizia, l’intelligenza. Jobs avrà avuto tanti difetti, ma nessuno sapeva vendere come lui.
Avete presente quel detto che dice “…riuscirebbe a vendere la sabbia nel deserto e il ghiaccio agli eschimesi“, ecco, in questo caso, ogni volta penso a Steve Jobs come protagonista di tale detto.
Ad onor del vero, facendo un salto di tantissimi anni in avanti, Steve non perse mai la voglia di fare scherzi. Nel 2007, quando lui stesso presentò il primo iPhone sul palco del Moscone Center, Steve effettuò una vera telefonata in diretta mondiale e chiamò lo Starbucks più vicino per ordinare 4000 caffelatte, uno per ogni spettatore della conferenza.
Dall’altra parte rispose un dipendente di nome Zhang che rimase scioccato, così Jobs gli disse “sto scherzando, ho sbagliato numero, arrivederci” e chiuse.
Steve Jobs sapeva scherzare.
10 anni senza Steve Jobs: l’eterna lotta contro l’Impero
Jobs odiava IBM. Questo concetto è stato chiaro a tutti da sempre. Secondo Jobs, la IBM era la “rovina”, era l’impero di Star Wars, era il regime nazista degli anni ’40, era il nemico di sempre, erano quelli che copiavano, rovinavano, distruggevano. Steve però non si limitava a pensarlo, faceva molto a riguardo nella sua personalissima “lotta al potere”. Perché alla fine alla IBM erano tutti in giacca e cravatta, dei business men, lui invece era un hippie rivoluzionario, e ci teneva a dimostrarlo in tutto e per tutto, anche all’interno della sua azienda. Certamente, se non fosse stato per questo suo animo rivoluzionario, Jobs non avrebbe mai portato alcune delle più grandi rivoluzioni della storia, e forse noi non le avremmo mai conosciute. Essere rivoluzionari a volte fa bene, altre volte no, dipende dai casi, in questo però, non ci sono soltanto storie belle e divertenti, a volte sono presenti anche eccessi, come in tutto.
Ricordo un paio di episodi inerenti alla lotta tra Apple e IBM – aziende che oggi, paradossalmente, sono partner e lavorano insieme per molti progetti (anche recenti) – che secondo me meritano di essere citati in questo editoriale omaggio a Jobs proprio per sottolineare la genialità intrinseca in questa persona.
10 anni senza Steve Jobs: 1944
Il primo evento da ricordare è stato scoperto soltanto nel 2012 ma fu uno spot prodotto addirittura nel 1984: mentre tutti (o quasi) ricordano il grande spot dello stesso anno dedicato al Macintosh e prodotto da Ridley Scott, in cui comunque veniva metaforicamente presentata l’IBM come il Grande Fratello di Orwell (sempre tratto dal romanzo 1984 che è un colossal che vi invito a recuperare se non l’avete mai letto – benché non leggerissima come lettura), ci fu in realtà un’altra pubblicità registrata nello stesso anno e mai diffusa in televisione. Si chiamava “1944” ed era uno spot in cui Steve Jobs interpretava Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano vincitore della Seconda Guerra Mondiale che dichiarò guerra all’asse nazista. Il video originale durava circa 9 minuti, l’obiettivo era quello di paragonare al vero conflitto bellico lo scontro vissuto da Apple (che rappresentava l’America – quindi il bene) contro IBM (che rappresentava la Germania, quindi il male).
Il fine dello spot era quello di dimostrare che i prodotti della mela morsicata erano di qualità superiore, non si puntava sulla quantità come i rivali. Il video costò ad Apple quasi 50.000 dollari dell’epoca ed era stato preparato appositamente per un meeting dello stesso anno alle Hawaii per spronare gli addetti alla vendita dell’azienda di Cupertino.
Steve Jobs sapeva scherzare.
…certo, avrei potuto mettervi qui lo spot del 1984 prodotto da Ridley Scott, ma perché farlo, lo fanno tutti.
10 anni senza Steve Jobs: Welcome IBM, Seriously
L’altro episodio che ricordo quasi come se lo avessi vissuto (anche se in realtà non ero ancora nemmeno stato pensato dai miei genitori) era il vero inizio della guerra tra Apple e IBM, una dimostrazione di potere, sicuramente, ma anche l’ennesima dimostrazione di genialità, furbizia, astuzia e capacità comunicativa, un esempio che ancora oggi è oggetto di studio nelle Università di settore. Tutto iniziò il 12 agosto del 1981, quando IBM presentò il suo primo personal computer, ovvero il modello 5150.
All’epoca, Apple II, il secondo computer dell’azienda di Cupertino, era sul mercato da poco più di 4 anni e aveva registrato vendite da record (nella storia furono venduti quasi 5 milioni di esemplari, davvero tanti per l’epoca). In sostanza, secondo Apple, IBM si era “svegliata”, quasi come per dire “ah, ce l’avete fatta ad arrivare anche voi ai personal computer, vero?”. Si, perché il concetto di “computer per tutti”, Apple lo aveva sdoganato anni e anni prima, già a partire dalla fondazione dell’azienda, nel 1976. L’idea di Jobs era quella di rendere la tecnologia alla portata di tutti, di permettere a chiunque di poter possedere un computer a casa, un computer per scrivere, gestire dati, fare calcoli (pensate che, ad oggi, l’Apple Watch che molti portano al polso è potente quasi 500 volte in più rispetto ad Apple II, in dimensioni e peso “da polso” e non “da scrivania”).
Tornando per un attimo a IBM, il modello 5150 era destinato per essere un modello “rapido” “improvvisato”, qualcosa di necessario per coprire una falla nel catalogo dell’azienda per l’emergente mercato dei personal computer. Strategicamente parlando, per IBM era un antipasto da mettere sul mercato per poter poi sviluppare un dispositivo migliore successivamente e con calma. IBM 5150 fu realizzato in meno di un anno da 12 ingegneri che erano costantemente pressati dai vertici per fare tutto “in fretta” al fine di contrastare la concorrenza, che nel frattempo era già ben avviata. Tale mindset fu ovviamente fallimentare, ma fu anche l’inizio di una serie di fallimenti continui, a livello strategico, per l’azienda rivale di Apple. Decisioni che ancora oggi influenzano le nostre vite, senza che la maggior parte delle persone lo sappiano.
Furono utilizzati componenti facili da reperire e fu utilizzato il sistema operativo DOS di Microsoft, azienda fondata da Bill Gates, altro storico rivale di Jobs, che in realtà, cosa che molti non sanno, non fu nemmeno il vero creatore di quel sistema operativo, in quanto venne acquistato per qualche spicciolo da un ragazzo che aveva fatto tutto da solo, tale Gary Kildall. Ma questa è un’altra storia.
Ad ogni modo, tale PC di IBM, come già scritto, si rivelò fallimentare per tantissimi motivi, eppure riuscì ad imporsi nelle grandi aziende che già utilizzavano qualche altro dispositivo IBM, cosa che, in qualche modo, rovinò i piani di Jobs e Wozniak.
Fu così che, dopo esattamente 12 giorni dalla presentazione di quel computer, cioè il 24 agosto 1981, Steve Jobs decise di acquistare un’intera pagina sul Wall Street Journal realizzando uno degli “spot” o degli “adv” (se preferite) che ritengo essere tra i più “schietti” e pungenti in assoluto. Fu il famoso “Welcome, IBM. Seriously.” Quasi come per dire “Ehilà, ci sei anche tu, IBM, ce l’hai fatta a svegliarti”. Uno sfottò meraviglioso, degno del miglior maestro degli scherzi, un uomo che sapeva prendersi sul serio ma anche prendere in giro, perché in fondo Apple, già all’epoca, aveva largamente anticipato la concorrenza su tutto, a partire dalla tecnologia, passando per la costruzione, la facilità d’uso e altre peculiarità che IBM e Microsoft potevano solo sognare.
Steve Jobs sapeva scherzare.
10 anni senza Steve Jobs: Locally Integrated Software Architecture
30 luglio 1979, due anni prima dalla presentazione di IBM 5150 citato poco sopra, gli ingegneri di Apple iniziano a lavorare al super e segreto progetto “LISA”, il primo vero personal computer dotato di interfaccia grafica (GUI) e un mouse, la più grande realizzazione “vivente” del WYSIWYG (“What You See Is What You Get” – tema affrontato ancora oggi, nella maniera più assoluta, nelle scuole di informatica, grafica e correlate).
L’idea di questo computer nacque dalla mente di Steve Jobs in seguito ad una visita al PARC (Palo Alto Research Center) di Xerox nel 1979, giusto poche settimane prima di quel famoso 30 luglio. Non fu Apple e nemmeno Steve Jobs ad inventare il mouse, ma di fatto, Xerox non sapeva cosa farsene, aveva lì questo dispositivo inventato da Douglas Engelbart addirittura nel 1968 a prendere polvere. Tuttavia, il problema era proprio quello appena descritto: pensato come dispositivo di puntamento elettronico, nessuno era riuscito a trovare una collocazione o una necessità d’utilizzo / applicazione pratica per quel progetto, che era rimasto un “prototipo non definito”. Nessuno tranne Steve Jobs. Alla vista di quel dispositivo, i suoi occhi si illuminarono, Steve si infiammò e in pochi minuti realizzò che quella sarebbe diventata la più grande rivelazione del futuro, cioè un accessorio da affiancare alla tastiera per permettere alle persone di interagire con finestre e oggetti. “Finestre“, avete letto bene, perché da qui nacquero tutte le idee per un’interfaccia grafica basata su oggetti digitali e soprattutto finestre, tante finestre. Curioso, il sistema operativo della concorrenza si chiama proprio “Finestre” (Windows, ndr) – ah il caso, alle volte è davvero pazzesco, così com’è pazzesco che “Finestre” di Microsoft nacque parecchi anni dopo.
Lisa non fu un grande computer a livello di vendite e successo: venne presentato il 19 gennaio 1983 nel corso dell’annuale conferenza dei soci. Il suo prezzo di partenza era fissato a 9.995$, una cifra esorbitante per l’epoca (l’obiettivo iniziale era quello di creare un dispositivo economico di prezzo non superiore ai 2000 dollari – ma non andò così). Lisa anticipava il Macintosh di un anno, ma era più avanzato per tanti aspetti tecnici che ora non starò qui ad approfondire (non è questa l’occasione).
Il punto principale di questo paragrafo parte dal computer ma si evolve dal lato umano: forse molti di voi non sapranno che il 17 giugno 1978, nell’Oregon, nasce Lisa Brennan-Jobs, la prima figlia “non figlia” di Steve Jobs, e qui apriamo la vera “parentesi” di questo capitolo. Avrete sicuramente pensato ad una “connessione” tra il nome di quella che inizialmente non fu riconosciuta come figlia da parte di Jobs e il computer che in Apple iniziarono a realizzare un anno dopo, nel ’79. E invece no, perché Steve Jobs, ad una diretta domanda della stampa in seguito alla presentazione del suo computer, rispose “Lisa non è mia figlia e quel computer non è correlato. Lisa sta per “Locally Integrated Software Architecture” ”
Al momento della nascita di Lisa, i genitori non erano più una coppia e per tanti anni Jobs si rifiutò di riconoscerla come sua; in seguito però, si riconciliarono e instaurarono un solido rapporto. Jobs, maturando negli anni successivi, decise di scusarsi con la figlia e la ex fidanzata, riuscendo anche ad instaurare un solido rapporto con Lisa, soprattutto negli ultimi instanti di vita. Lisa è stata una delle poche persone a non voler essere intervistata da Walter Isaacson, biografo di Jobs.
Steve Jobs non dichiarò mai pubblicamente che quel computer, Lisa, era dedicato a sua figlia, la verità però, oggi, la sappiamo tutti. Anche se non pubblicamente dichiarato, quello fu un “tentativo” di gesto eclatante volto ad omaggiare la sua bambina, a cui però seguirono senz’altro atteggiamenti poco “da padre” (fino al pentimento e alle scuse).
Bisogna ammettere, comunque, che l’acronimo pensato e pronunciato ai microfoni della stampa, era piuttosto geniale e difficile da immaginare.
Steve Jobs sapeva scherzare.
10 anni senza Steve Jobs: “ci vorranno solo 30 minuti”
Kate Moss nuda a Marrakech su una spiaggia durante il giorno del suo diciottesimo compleanno, il poster del film Kill Bill, Alfred Hitchcock che presenta un’oca piumata nel 1973, il ritratto di Keith Richards immerso dal fumo di una sigaretta, gli spot di Gap, Levi Strauss e Chanel, manifesti di film e copertine di Vogue, Rolling Stone e Time. Questi sono soltanto alcuni degli incredibili lavori di Albert Watson, fotografo nato ad Edimburgo nel 1942. Tra questi lavori ce n’è uno in particolare che ricordiamo bene perché lo abbiamo visto più volte: l’iconico scatto frontale a Steve Jobs, diventato anche copertina della sua biografia scritta da Walter Isaacson.
I dettagli della realizzazione di questo scatto sono stati resi noti nel 2017 proprio dallo stesso autore, Albert Watson, in un’intervista rilasciata a Profoto, storico produttore di flash da studio estremamente professionali.
Nel 2006, una rivista chiese ad Albert di ritrarre alcune personalità di spicco a livello mondiale, tra cui anche Steve Jobs. Watson, noto anche per la sua smodata ricerca dello scatto speciale, unico e iconico, accetta senza battere ciglio.
La sfida in questo caso era duplice, perché Steve Jobs non era Kate Moss: il fondatore di Apple non amava essere fotografato e faceva il possibile per mettere a disagio chi cercava di farlo. Albert sapeva questa particolarità di Jobs, pertanto doveva trovare un modo per catturare l’attimo giusto in pochissimo tempo, per evitare di innervosire Jobs.
La prima cosa che Jobs disse nel suo incontro con Albert Watson fu “dobbiamo sbrigarci, ho soltanto un’ora di tempo“, Albert rispose “ci vorranno solo 30 minuti“, e fu così che Jobs sorrise, guardando Watson come un bambino davanti ad un regalo di Natale. Trenta minuti per Jobs erano tantissimi data la sua vita estremamente impegnata, che infatti rispose “Sarebbe grandioso, oggi ho un sacco di cose da fare“.
Per realizzare questo scatto, divenuto poi iconico, Watson decise di immaginarlo come se fosse una foto per il passaporto: semplice, a sfondo bianco, senza troppi elementi di distrazione. Il trucco e la genialità del fotografo si nascondevano in ciò che chiese a Jobs per fare in modo che si sistemasse nella posizione pensata originalmente: “guardi verso la fotocamera abbassando leggermente il volto e immaginando di trovarsi al tavolo con persone che sono in disaccordo totale con quello che sta dicendo, ma lei sa di avere ragione” e Jobs rispose “Semplicissimo, succede ogni giorno”. Steve guardò verso la fotocamera con il dito sul mento facendo un leggerissimo sorriso come per dire “Non mettermi in discussione”.
In soli 20 minuti lo scatto era pronto, addirittura 10 minuti prima di quanto previsto. Prima di andarsene, Jobs chiese a Watson se fosse stato possibile dare un’occhiata alla foto, affermando subito dopo che si trattava della migliore fotografia a lui scattata.
Qualche anno dopo, mentre preparava l’attrezzatura fotografica per la giornata lavorativa, Watson ricevette una chiamata inattesa: era John Dowling, in seguito diventato responsabile delle PR di Apple, che chiese ad Albert se avesse ancora quella foto e, in caso di risposta affermativa, se fosse stato possibile averla urgentemente in formato digitale. Capendo tale emergenza, Albert recuperò la foto e la mandò qualche minuto dopo a Downling. La sera stessa fu annunciata la morte di Steve Jobs, e Apple pubblicò l’annuncio ufficiale sul proprio sito web insieme al ritratto scattato da Albert. Era il 5 ottobre 2011.
“Steve diceva sempre di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. E l’ha fatto, ha trasformato le nostre vite, ridefinito interi settori e compiuto una delle più grandi prodezze della storia umana: ha cambiato il modo in cui ognuno di noi vede il mondo” – Barak Obama
10 anni senza Steve Jobs: Think Different
Ci sarebbe così tanto da dire su Steve Jobs che nemmeno un libro lungo il doppio della sua biografia potrebbe bastare a raccontare tutto. Tante storie, tante emozioni, tanti momenti unici, tante “tirannie”, tanti comportamenti anomali…e il paradosso è proprio il fatto che tutta la vita di Steve può essere semplicemente riassunta con “Think Different“. A partire dalla ricerca del suo vero padre, arrivando fino agli ultimi giorni, alle scelte fatte. Steve, ne sono quasi certo, se potesse tornare indietro non cambierebbe nulla e rivivrebbe tutto esattamente com’è stato, perché lui era così, un folle, un rivoluzionario, un pazzo. “Soltanto le persona che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, sono le uniche in grado di farlo” diceva un vecchio spot per la campagna Think Different di Apple lanciata a partire dal 29 settembre 1997, e non c’è nulla di più vero. Il claim di questa campagna (e il suo “credo”) è stato il mio traino per anni e anni, e lo sarà ancora, all’infinito, per tutta la mia vita. Ogni volta in cui ho pensato di cambiare qualcosa nella mia vita l’ho fatto senza pensarci, senza pentirmi, lanciandomi a capofitto, avventurandomi in qualcosa di nuovo che mi spaventava e che mi metteva ansia, ma che mi faceva vivere, mi faceva essere me stesso.
Non sono Steve Jobs e ci mancherebbe, non ho nemmeno la pretesa di pensarlo, ma in realtà, paradossalmente, tante scelte fatte nella mia vita sono basate anche, banalmente, su scelte che ha fatto lui, che ho visto io, che ho vissuto e che mi sono state trasmesse tramite DNA, perché in fondo, posso orgogliosamente dire che anche mio padre, nel suo piccolo, è una persona che ha saputo essere “rivoluzionaria” “folle” e in grado di cambiare. Ha preso decisioni che andavano contro tutti, ha avuto ragione, ha avuto successo (sempre nel suo “piccolo”), ha realizzato qualcosa. La storia si ripete ma è inevitabilmente così: se non ti alzi e se non cerchi di fare qualcosa prendendo decisioni folli, rimarrai sempre fermo allo stesso punto, la tua vita non cambierà di una virgola.
La campagna Think Different di Apple ha “segretamente” insegnato in maniera implicita uno stile di vita, un modo di essere, di fare, di provare, di arrivare. Venivano rappresentati celebri personaggi storici con forte personalità, come Muhammad Ali, Maria Callas, Mahatma Gandhi, Alfred Hitchcock, Picasso, Albert Einstein, Martin Luther King, John Lennon, Thomas Edison e tanti altri. Persone che in comune hanno un solo elemento: la follia. Grazie alla follia hanno fatto la storia, hanno rivoluzionato la propria vita e quella di altri, hanno osato dove altri non hanno nemmeno provato, e sono riusciti ad arrivare da qualche parte, ad essere ricordati, a diventare qualcuno nella storia.
Se solo fossimo in grado tutti noi, nel nostro piccolo, di ragionare in questo modo, la nostra vita, la vita di tutti, sarebbe diversa, ma non possiamo essere tutti folli o rivoluzionari, non possiamo tutti cambiare il mondo, purtroppo. Eppure Jobs, basandosi su questo, ha dimostrato di vincere ancora, di trovare la chiave giusta. Dall’esterno si potrebbe anche banalmente pensare “ma guarda questo cosa si è inventato per vendere un semplice computer”, ma la realtà dei fatti la conosciamo tutti: quello non è un semplice computer e, al di là di questo, quella non è una semplice campagna. La pubblicità noiosa, monotono e rompi balle a cui tutti siamo abituati è sempre stato un concetto esterno alla filosofia Apple, una filosofia che, ancora oggi, deve tantissimo al suo fondatore. Sebbene Jobs non ci sia più da 10 anni, la sua impronta vive ancora nei cuori delle persone che ogni giorno lavorano in Apple, e non solo.
Prendere ispirazione è gratis, ma in un mondo in cui, oggi soprattutto, le persone sanno solo puntare il dito e criticare, è facile starsene seduti davanti ad un computer ad elargire commenti non richiesti e critiche non costruttive, ma la realtà, là fuori, è fatta per chi sogna e sa sognare, per chi vuole realmente cambiare le cose, anche se magari ha paura di non esserne in grado. Steve Jobs non era il più grande informatico di tutti, non era un super tecnico, non era il più grande genio di sempre, ma ha saputo sfruttare la sua genialità per diventare una personalità leggendaria, in grado di ispirare migliaia di persone e generazioni a venire.
L’ispirazione è gratis. Approfittatene.
“I buoni artisti copiano. I grandi artisti rubano” – Picasso
10 anni senza Steve Jobs: “oh wow…oh wow…oh wow”
5 ottobre 2011, avevo 21 anni e da molto tempo seguivo con grande piacere Steve Jobs. All’epoca ero un giovane come tanti, mi divertivo, uscivo con gli amici e avevo il mio lato Nerd che, quando ancora non era una cosa “cool”, spesso non veniva compreso. Sono sempre stato Nerd e non me ne sono mai vergognato. Ho sempre avuto amore per la tecnologia e per l’informatica. Ho avuto il mio primo computer a 5 anni, ho sempre cercato di andare oltre nelle cose, provando a conoscere i dispositivi con cui mi interfacciavo nel modo migliore. Oggi non sono diventato Mark Zuckerberg, e fondamentalmente non sono nessuno, ma sono certo che tutto quello che so e che ho fatto nella mia vita mi rende felice del percorso. In questo percorso c’è sempre stata tantissima tecnologia, una passione che in me non morirà mai, anzi, morirà certamente insieme a me e non prima, indipendentemente dal giorno in cui effettivamente, anch’io, morirò (come tutti, purtroppo). Mi sono sempre chiesto come sia la vita dopo la morte. Mi sono sempre chiesto cosa succeda poco prima di morire.

Il 2011, per me, è stato un anno decisamente pessimo. Prima di arrivare al 5 ottobre 2011, data in cui, come ben saprete, ci ha lasciato Steve Jobs, dopo una lunga malattia incurabile, quell’anno avevo perso un altro elemento cardine della mia vita, un’altra grandissima ispirazione per me: mio nonno Arduino.
Sarà forse stata una coincidenza, non saprei come spiegarlo, ma il 2011, ad oggi, lo ricordo come l’anno in cui ho dovuto “iniziare a camminare con le mie gambe” e fare scelte che avrebbero condizionato inevitabilmente il mio futuro.
Quando hai 21 anni non sei forse “pronto” a prendere decisioni, non sei necessariamente così maturo, non riesci ad immaginarti “da grande” (anche se già grande lo sei). Io ero così: pieno di aspettative ma fortemente insicuro.
Oggi sono ancora una persona fortemente insicura, ogni giorno, ma tra le mie sicurezze restano due grandi pilastri: la fotografia e la tecnologia. Non a caso, durante il 2011, se ne sono andate le due persone che rappresentavano, per me, quei pilastri.

Mio nonno era un fotografo storico, un vero artista, una persona che aveva la sue idee e le sue convinzioni, quel tipo di persona che non si “schioda” da un pensiero, quel tipo di persona che ha fatto la guerra, si è messo al riparo dalle bombe, ha fatto scelte difficili, vissuto periodi difficili. A mio nonno non interessava passare alla fotografia digitale, era troppo fedele all’analogico, ma accidenti, ciò che riusciva a fare lui con rullini e pellicole resta ancora impossibile per molti oggi, quei “molti” che però hanno a disposizione una fotocamera che può autonomamente mettere a fuoco una moto a 250km/h, inseguirla e immortalarla per 30 volte in un secondo. Persone che nonostante tutto riescono a sbagliare, perché sicuramente vivono in un mondo più “agiato”.

Pertanto, quell’ormai lontano 5 ottobre 2011, che ricordo come se fosse ieri, appresi la notizia della morte di Jobs poco dopo la mezzanotte: ero nel mio letto, stavo scorrendo il feed di Twitter, come faccio ancora oggi (mi diverto molto ad andarci soprattutto quando arrivano grandi quantità di utenti in seguito a crolli di Whatsapp, Facebook e Instagram). Appresi la notizia da vari blog di settore, in seguito da Apple stessa. Non fui in grado di trattenere le lacrime, perché in fondo due pilastri a distanza di pochi mesi erano troppi da sopportare per me. Non potevo farcela.
A molti può sembrare stupido, molti possono pensare cose come “nemmeno lo conoscevi di persona, come può mancarti?”, poco importa, anzi, non mi importa nulla di ciò che pensano gli altri di me, non mi è mai importato granché, mi interessa come mi sento io, cosa mi emoziona, cosa mi fa stare male o cosa mi fa stare bene. Quella notte sono stato molto male, esattamente come pochi mesi prima in seguito alla morte di mio nonno.
Dieci anni dopo mi ritrovo qui a scrivere questo lungo editoriale, e credetemi, non è stato facile, perché ho ripercorso varie fasi della mia vita scrivendo tutto questo, momenti che voi non potete conoscere (non eravate insieme a me a viverli), ma che io ho vissuto e che ricordo bene. Eventi collegati tra loro, affermazioni che mi fanno ricordare alcuni fatti, momenti che associo ad altri e così via. Ecco perché la mia vita è così “collegata” con quella di Steve Jobs: non lo conoscevo di persona, non ci ho mai parlato, non ho mai conosciuto nessuno “vicino” a lui, eppure è come se avessi avuto una sorta di terzo nonno, che ora è ancora lì, da qualche parte, nel Cloud.
Steve Jobs, prima di andarsene, aveva vicino a sé Mona Simpsons, sua sorella biologica, fu lei stessa a scrivere, qualche giorno dopo quel maledetto 5 ottobre 2011, che le ultime parole del fratello furono “oh wow….oh wow….oh wow…” come se fosse stato in grado, per un attimo, di vivere la transizione tra vita e morte. O forse, magari, è stata l’ultima grande burla di Steve, maestro degli scherzi.