Mank è l’ultima fatica di David Fincher e questa è la recensione in anteprima perché arriva su Netflix il 4 dicembre, per la gioia di grandi e piccini. Ve lo dico subito, David Fincher è il mio regista preferito, i suoi film sono pieni zeppi di riferimenti, citazioni, piccole perle che si scoprono a ogni nuova visione. Vedere i suoi film più volte è doveroso, è come se ogni volta che premiamo play aumentassimo l’ingrandimento di un telescopio e ci accorgessimo che fino a quel momento avevamo visto solo il quadro generale, un po’ confuso, mentre le cose veramente preziose si annidano nei dettagli, scoprendo i quali, la superficie diventa più nitida, dettagliata, profonda. Ne consegue che David Fincher, in un modo completamente diverso da Christopher Nolan del quale qui trovate il nostro articolo sulla filmografia, realizza film difficili per il grande pubblico generalista che spesso a una prima occhiata non li apprezza. Mank si spinge ancora più in là e bisogna avere un background culturale molto forte e strutturato per vederlo, capirlo e soprattutto apprezzarlo. Ergo, non è un film per tutti.
Mank recensione: le basi sono fondamentali!
Nell’introduzione di questa recensione non stavo scherzando: per capire e apprezzare Mank bisogna conoscere, sapere e aver visto un po’ di cose. Ma per fortuna c’è qui il vostro amichevole Marco Champier di FotoNerd che le conosce, le sa e le ha viste e quindi può farvi un riassunto per aiutarvi a contestualizzare Mank e forse a farvelo piacere. Per quest’ultima cosa non garantisco, ho un occhio di riguardo per David Fincher, ma credo di essere abbastanza obiettivo per cazziarlo se necessario e questa volta…
In ogni caso, prima c’è da conoscere Orson Welles. L’avevo già tirato in ballo nella primissima recensione che ho scritto per FotoNerd: L’Immensità Della Notte, film che gli deve molto. In Mank, Orson Welles, è una presenza incombente, un uomo nell’ombra che innesca la storia e non si vede mai, ma l’ansia della sua presenza opprime i personaggi. Per chi non lo sapesse Orson Welles, a soli 24 anni a cavallo tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, era considerato un genio del cinema, tanto che la casa di produzione RKO Pictures lo aveva assoldato in esclusiva con 50.000 dollari anticipati, una percentuale sugli incassi lordi di tre film e soprattutto, piena e completa libertà artistica sulle tre produzioni da contratto. Se pensate che non fosse un granché, siete completamente fuori strada, ai tempi fu un accordo che fece tremare i polsi a tutta Hollywood.
I primi due progetti di Welles, Heart of Darkness e Smiler with a Knife, naufragarono quasi subito, il primo in particolare era ispirato al libro Cuore Di Tenebra che, 40 anni dopo, generò Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Il terzo progetto fu Citizen Kane, arrivato in Italia ben otto anni dopo l’uscita americana, nel ’48, tempo di chiudere con il fascismo, con il titolo di Quarto Potere e con ben 15 minuti in meno (la versione integrale di Quarto Potere è disponibile su Amazon Prime Video, ma le scene tagliate non sono ovviamente doppiate).
Perché è importante Quarto Potere? Perché è un film di rottura: Orson Welles esprime a pieno il suo genio cambiando e riscrivendo le regole del cinema sotto ogni aspetto: sceneggiatura, regia, fotografia e struttura. Dal 1941, anno in cui uscì, il cinema è entrato nell’era moderna ed è a tutt’oggi considerato il miglior film mai fatto. Ai tempi fu ostracizzato così tanto che non rientrò degli 800 mila e spicci dollari di produzione, ma fu candidato a ben 9 Oscar, vincendone solo uno per la Miglior Sceneggiatura Originale. Il problema è che era fortemente ispirato alla vita di William Randolph Hearst, magnate e politico americano che, con il suo impero mediatico (ai tempi esistevano solo giornali e cinegiornali), pilotava le opinioni del popolo su qualsiasi cosa: dalla moda alla politica. In Quarto Potere, Welles non si limita a parlare di lui, ma lo sbeffeggia, lo riduce a un cittadino qualsiasi, pieno di soldi, capricci, maniaco del controllo e del possesso. Ne consegue che William Hearst impedisce ai suoi giornali di parlare del film, cancella qualsiasi recensione, fa di tutto per bloccarlo, offrendo alla RKO 800 mila dollari per bruciare ogni copia e di conseguenza, l’Accademy si trova quasi impossibilitata a premiare Quarto Potere con gli Oscar che merita e da 9 nomination li riduce a 1 solo premio, perché è un film troppo importante e seminale da poterlo ignorare impunemente.
Welles nel suo capolavoro, come dicevo, trascende le regole del cinema classico, distruggendole sotto ogni aspetto. In primis con la sceneggiatura e la storia. Il protagonista non è un eroe e non crea empatia, suscita nel migliore dei casi disgusto per la miriade di difetti palesi che ha e che non fa nulla per nascondere, arrivando a rovinare coscientemente la vita delle persone che ha intorno e non c’è alcuna redenzione, anzi, il suo atteggiamento è dettato da una cosa talmente iniqua e futile, da accrescere a dismisura la repulsione per il suo comportamento. La storia non è lineare, anzi, comincia con la morte del protagonista e continua con una serie di flashback sulla sua vita, che poi non sono altro che racconti fatti da chi l’ha conosciuto e quindi distorti dai sentimenti e le emozioni che il testimone ha nei suoi confronti. Questo delega, per la prima volta nella storia del cinema, allo spettatore il compito di comporre il complesso puzzle della vita di Charles Foster Kane, fino a rendersi conto che effettivamente mancano dei pezzi e non tutto combacia, almeno fino alla criptica scena finale che è la chiave di volta di tutto il film e rende chiara la pochezza e la bassezza morale di Kane dovute alla perdita della sua Rosabella (Rosebud in originale). Tra l’altro, piccolissima parentesi videoludica, Rosebud era, guarda caso, il cheat che si doveva usare nel primo The Sims per avere una montagna di soldi.
Per quanto riguarda regia e fotografia di Quarto Potere, beh, Welles compie il miracolo di reinventare da capo il linguaggio del cinema. Utilizza per la prima volta in assoluto lunghi piani sequenza senza montaggio per raccontare le scene, dipinte con luci e ombre sulla scenografia e sui personaggi, in modo quasi teatrale e profondamente drammatico. Aumenta la profondità di campo per tenere tutto a fuoco, dal fondo al primo piano, cosa vietatissima a quei tempi per non distrarre lo spettatore dagli attori. Ma Welles ha bisogno dei particolari sullo sfondo per raccontare la sua storia esattamente come ha bisogno di una fotografia così marcata. La macchina da presa non segue più il punto di vista di un personaggio, ma è un freddo e cinico osservatore esterno che spia quello che succede. Le inquadrature sono diverse, nuove e si distaccano da quanto visto fino a quel momento. Questo modo di reinterpretare il cinema destabilizza: il pubblico non ha più una visione precisa, ma è costretto a farsi una propria idea evincendola da quanto appare, sente e intuisce da ciò che vede sullo schermo.
Se in questo preciso momento non state schiumando dalla voglia di andare a vedere Quarto Potere, siete delle brutte persone.
Mank recensione: di cosa parla Mank?
Mank è il soprannome con il quale tutti chiamano Herman J. Mankievicz: sceneggiatore hollywoodiano caduto in disgrazia, non certo senza colpe, assoldato da Orson Welles per scrivere il suo terzo film. Nell’accordo con Orson c’è la clausola che Mank non sarebbe comparso come autore della sceneggiatura, solo che lui se ne esce con Quarto Potere e si rende conto di avere tra le mani un capolavoro assoluto, la cosa migliore che avesse mai scritto e quindi pretende che il suo nome compaia nei titoli. Tutto questo è storia, come è storia che l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale nel 1942 viene assegnato a Mank e Welles, accreditato come co-autore.
In sintesi, Mank di David Fincher parla proprio di come Mankievicz sia arrivato a scrivere Quarto Potere, in quei febbrili 60 giorni datigli da Welles. E lo fa sfruttando proprio la struttura di Quarto Potere: frequenti flashback tratteggiano una Hollywood al collasso dopo la Grande Depressione del 1929, capitanata da pochi ricchissimi individui e sorretta da maestranze sottopagate. Certo, Fincher non si nega il piacere di sottolineare come il potere politico sia impastoiato con la ricchezza e il potere mediatico di individui come William Hearst, visto che siamo alle porte delle elezioni per il nuovo governatore della California e la corsa dei candidati è serrata. E tutto è diretto e splendidamente messo in scena proprio come il capolavoro di Welles, con un bianco e nero profondo, con ombre e luci protagoniste dell’umore della scena; lunghi piani sequenza e dialoghi feroci e articolati in cui bisogna saper leggere fra le righe e addirittura nell’audio c’è il tipico riverbero dei dialoghi dell’epoca; profondità di campo immensa, primo piano e sfondo sono un tutt’uno e compongono la scena; lo spettatore è incaricato in prima persona di mettere insieme tutti i pezzi del puzzle per ricostruire la vicenda della nascita di Quarto Potere.
David Fincher ha sempre avuto uno stile che definisco “fotorealistico“, in mancanza di un termine più appropriato, perché le immagini dei suoi film hanno un vero peso. Fotografia, color e inquadrature puntano a rendere la scena sempre reale, non risultano mai troppo patinate o artefatte, anche se lo sono ovviamente e puntano a far passare le emozioni del momento in perfetta simbiosi con il racconto che si sta guardando. In Mank adatta il suo stile a quello dei film d’epoca, a quello utilizzato da Orson Welles, e ci riesce, pur con qualche rinuncia. I primi piani che seguono i movimenti dell’attore spariscono in favore di inquadrature ferme, con pochissimi movimenti di camera e Fincher rinuncia ai colori, ma usa un bianco e nero che è vivo e pulsante, tanto da non far più notare la cosa dopo pochi minuti di visione.
Però in Mank manca un tassello fondamentale che deve essere fornito dallo spettatore e dalla sua cultura: Quarto Potere. Per capire il film di Fincher, bisogna conoscere il film di Welles e i suoi retroscena, il periodo in cui è stato girato, il periodo precedente al film e quello che è successo dopo. Ma non è una scelta leziosa, tutt’altro, David Fincher usa Mank per scuotere lo spettatore e fargli notare che la storia si ripete e che stiamo rivivendo in prima persona lo stesso identico periodo degli anni 30: Hollywood se la sta passando male per la pandemia, nessuno va al cinema perché i cinema stessi sono chiusi. Siamo protagonisti delle elezioni americane più controverse della storia, con i candidati molto vicini tra loro. Il potere politico è impastoiato con i media, solo che nel 1934 erano giornali e cinegiornali che manipolavano e condizionavano le scelte del popolo, ora sono i social media e gli attori e i nomi grossi della mecca del cinema che si schierano con un candidato piuttosto che con un altro. Siamo nel 2020, forse è cambiata la forma delle cose, ma la sostanza è la stessa del 1930.
Cosa ci riserva il futuro? Mank non ce lo dice, David Fincher ci mette sotto il naso gli elementi e noi dobbiamo fare i compiti, andare a vedere cosa è successo e cercare di cambiare il risultato. Insomma, siamo noi quelli che hanno il potere di far ripetere o meno la storia.
Mank recensione: considerazioni e conclusioni
Mank, come avrete capito, è un film tremendamente difficile da seguire, capire e digerire se non si hanno le basi e le chiavi di lettura. In più sono due ore e spicci di dialoghi serrati senza concessione alcuna, tali che se si perde una parola o non si capisce un’allegoria, il discorso diventa surreale e impossibile da capire, costringendo a tornare all’inizio del dialogo e ripartire da capo. Insomma, Mank non è un film per tutti.
Mank non è per chi non ha visto Quarto Potere, non conosce Orson Welles e non conosce la storia dietro quel film. Non è per chi vuole spassarsela per un paio d’ore, con qualcosa che lo intrattenga. Non è per chi si distrae e non è per chi non ha voglia di approfondire e far girare le rotelle del cervello per andare un poco oltre il film. Ed è lecito, anzi, sacrosanto, non aver voglia di fare tutti sti sbattimenti per un film. David Fincher ha fatto più un film per sè stesso e per gli addetti ai lavori, che per il pubblico di massa. In passato lo aveva già fatto, ma si era tenuto un passo indietro, lasciando uno spiraglio piuttosto grosso al pubblico, ma stavolta no.
Quindi poco valgono le interpretazioni degli attori, Gary Oldman nel ruolo principale di Mankievicz è un gigante, ma anche Charles Dance e Amanda Seyfried nei ruoli di William Rudolph Hearst e Marion “Rosabella” Davies sono perfetti (no, non ci sono spoiler su Quarto Potere in questa frase. Mank e Welles sono stati ancora più meschini della realtà). E poco vale la passione sfrenata per David Fincher, sappiate che se premete play per far partire Mank, poi dovete seguirlo, perché non si gira ad aspettarvi, lui va per la sua strada, dando per scontato che quella strada la conosciate già anche voi e il mezzo ve lo portiate da casa, perché non c’è spazio per chi vuole fermarsi un attimo.
Lo ripeto: adoro David Fincher, adoro i suoi film, adoro rivederli più volte per capirne i più piccoli dettagli, ma stavolta Fincher mi ha spinto un po’ oltre, costringendomi a uno sforzo sovrumano non per adorarlo, ma solo per volergli ancora bene. E gliene voglio, reputo Mank un film bellissimo una volta finiti i titoli di coda e quel paio di giorni per digerirlo, ma nel mentre il viaggio è stato un po’ una tortura e ne sono uscito provato.
Diciamo che per stavolta mi accontento di quello che ho capito alla prima visione, mio caro David.
Mank uscirà su Netflix il 4 dicembre 2020, vi lascio con il trailer ufficiale del film.
Recensione in breve
Mank
Mank di David Fincher è un film molto difficile da vedere, capire e digerire. È un'opera molto personale che, con la scusa di raccontare una vicenda già poco chiara di per sé, racconta i giorni nostri, il cinema di oggi e i social media nella società moderna. Costringe a tornare al 1934 per capire il 2020 e non è un viaggio affatto facile da fare. Mank non è un film per tutti, vi ho avvisato.
PRO
- Presuppone la conoscenza approfondita di Quarto Potere
- L'allegoria e il parallelismo tra 1930 e 2020
- La messa in scena
- Le interpretazioni, Gary Oldman su tutti
CONTRO
- Presuppone la conoscenza approfondita di Quarto Potere
- La capacità di capire l'allegoria e il parallelismo tra 1930 e 2020
- Veramente difficile da seguire