È uscito nelle sale italiane l’ultimo film della regista cinese Chloé Zhao premiato agli Oscar. Un viaggio on the road, in compagnia di Frances McDormand, tra un racconto intimista e uno spaccato di vita dell’America rurale dei giorni nostri. Ecco la recensione di Nomadland.
Da più di un anno siamo smarriti, spaventati, sospesi. La pandemia COVID-19 ci ha bloccato in casa, fermi nelle nostre paure e nelle nostre prospettive sul futuro. Poi, dopo molto tempo, ci aspetta Nomadland di Chloé Zhao alla riapertura delle sale cinematografiche, il titolo fresco vincitore dell’Oscar come miglior film, miglior regia e miglior attrice protagonista. Un road-movie atipico, fatto di silenzi e luce naturale, con una voce forte e chiara di un’umanità nascosta ma dignitosa. Forse servivano i nomadi della Zhao a ricordare la nostra condizione originaria e la tensione profonda di avventurieri. La paura di fallire davanti alle delusioni della vita, la curiosità di esplorare le possibilità della realtà, di muoversi continuamente da un luogo a un altro per cercare il proprio posto nel mondo.
Nomadland recensione: la trama
Nomadland è, innanzitutto, un grande lavoro di convivenza tra la finzione e il documentario. La storia nasce dal libro giornalistico Nomadland. Un racconto d’inchiesta della scrittrice Jessica Bruder. L’incipit è appena abbozzato: la protagonista Fern (Frances McDormand) carica i bagagli sul proprio furgone e si mette in strada alla ricerca di una vita fuori dalla società convenzionale dopo che la città mineraria in cui viveva è stata sostanzialmente dissolta. La donna cercherà di immergersi dentro questo stile di vita dall’Ovest ad Est dell’America. Mentre coglie le opportunità di lavoro per mantenersi lungo il percorso, intreccia rapporti con i nomadi durante i loro raduni, e affioreranno i motivi della sua scelta e un passato da riconciliare.
L’opera è un esercizio di equilibrio e sensibilità non indifferenti, nella quale l’attrice e la regista hanno lavorato fianco a fianco per creare il ritratto della protagonista e innestarlo nel contesto autentico dei nomadi moderni americani. Lo sguardo e la vita della Fern di una McDormand “sotto copertura” diventano così anche le nostre. Nomadland, rendendo fedeltà allo stile di vita, alle storie e ai volti dei migranti incontrati lungo la strada, ci racconta non soltanto il dramma umano di chi parte per costruirsi una nuova esistenza lontana da una vita conosciuta, ma anche uno sguardo “fuori dal mondo” in movimento per guardare e sollevare grandi quesiti non solo sulla realtà di oggi, ma anche su noi stessi. Vagando senza meta con la lanterna della speranza per cercare la strada verso la propria destinazione.
Nomadland recensione: la fotografia e le scelte di regia
È allora quasi fin troppo facile elogiare i crepuscoli e albe mozzafiato di Joshua James Richards. Meno lo è, invece, sottolineare l’apparente semplicità del direttore della fotografia di saper raccontare, senza risultare didascalico, lo stato d’animo della protagonista errante del suo viaggio esistenzialista. Quando si tratta di piani, emerge l’attenzione per una bravissima McDormand o dei suoi compagni nomadi. Mentre nel momento di lasciar respirare e riflettere lo spettatore sul senso della vita, Richards usa campi larghissimi o panorami nei quali è la terra ad accogliere l’essere umano. Quasi a restituirgli una dimensione primitiva. Vagabonda, fragile, curiosa. Le luci delle città sono riverberi lontani, mentre gli scenari nebbiosi autunnali, le steppe desolate, i canyon erosi dal vento relegano noi, spettatori-nomadi, in una dimensione intima e ascetica.
Ed è proprio in quelle diverse gradazioni di luci ed ombre, in una fauna rurale e periferica, come le scelte narrative-documentarie e fotografiche hanno un peso specifico. Ogni elemento orizzontale – i comparti tecnici – e verticale – i livelli di lettura della storia – , si fonde nello spirito di ricerca della Zhao. Un approccio umano prima ancora che registico, dalla troupe ridotta al minimo alla partecipazione di veri nomadi come attori alle vicende della McDormand. Un lavoro creativo, dalla scrittura al montaggio, completamente diverso per la regista cinese rispetto al suo precedente The Rider – il sogno di un cowboy. Così seguiamo le vicende di Fern e di alcuni suoi amici nelle difficoltà di lavori massacranti e alienanti di una coltivazione di barbabietole da zucchero o come impiegata da Amazon; ai ricordi dei vissuti di persone incontrate soltanto per un giorno alle riflessioni di una libera solitudine itinerante ben racchiusa nella frase «ci vediamo lungo la strada». Il tutto accompagnato dalle musiche di Ludovico Einaudi, e non è poco.
Nomadland recensione: il peso della libertà
Nomadland non è però soltanto un dramma intimista di una donna alla ricerca di sé stessa o un racconto antropologico come Below Sea Level di Gianfranco Rosi, mentore invisibile della Zhao. In quel titolo metaforico c’è un’umanità in viaggio, in cammino fin dalle sue origini e destinataria di un destino di più grande. Nei racconti attorno al falò dei senza fissa dimora, trovano spazio la necessità di fare memoria e di essere ricordati. Ma il film s’interroga, grazie alla figura dei vagabondi in camper, anche sulle conseguenze di una solitudine voluta, non subìta, e del bisogno di rimanere comunque legati in qualche modo alla comunità. Scriveva infatti Adriana Zarri come «l’isolamento è un tagliarsi fuori, ma la solitudine è un vivere dentro». Certamente, come scrive Cinefilia Ritrovata, «l’Academy ha messo in nota i prossimi temi del domani: povertà, organizzazione del lavoro, ambiente» nell’America di Biden e non solo. Ma il film della Zhao, ad avviso di chi scrive, non scade nel pietismo né vuole essere un’analisi sociologica di individui “senzacasa” per scelta o per necessità nel deserto americano. Parafrasando Primo Levi, si tratta di persone nomadi e libere, liete dell’aria che respirano e della terra che calcano. Se vi si vuole leggere una possibile lettura politica o meno del film, allora Nomadland potrà forse risultare fin troppo “morbido” nelle prese di posizione sul tema dei nomadismo moderno. Nonostante ciò, l’arco narrativo della storia di Fern, segnata dagli episodi della vita, può avere un finale “giusto” ma meno “autoriale” delle premesse iniziali.
Nomadland recensione: conclusioni
L’opera di Chloé Zhao, dunque, ha una voce forte e chiara. Racconta temi potenti sottovoce e con gli sguardi, con l’incedere delle stagioni e le atmosfere ovattate. Un’insostenibile leggerezza di scelte registiche, di soggetto e di messa in scena rendono il film un road-movie intimista, in continuo e precario equilibrio tra il cinema del reale e una rappresentazione “politica” della realtà. Forse Nomadland è il film del quale avevamo bisogno in questo periodo storico. Nella sua fotografia crepuscolare e nei suoi assordanti silenzi, nella maestosità della natura selvaggia e nella quotidianità di realtà bucoliche, ci invita a tornare all’essenziale. Ci sussurra di raccogliere le poche cose importanti della nostra vita e metterci in viaggio dentro noi stessi. Alla ricerca di un senso, di una verità, di un sentimento. A vagare come nomadi nella terra della nostra anima; a lottare per il proprio spazio di felicità e a condividere un pezzo di strada con i compagni della nostra esistenza. Ovunque essi siano.
Il film al momento è disponibile anche su Disney+ nella sezione Star. Nulla potrà mai togliere la comodità della propria casa, ma è altrettanto vero come nulla potrà sostituire l’esperienza – e la bellezza – di vedere un’opera al cinema. Perciò, se ne avrete occasione, andate in sala a vedere Nomadland e le sue immagini sul grande schermo.
Recensione in breve
Nomadland
Tra il cinema del reale e una rappresentazione "politica" della realtà, Nomadland è un road movie intimista sulla scelta indipendente o forzata nelle sue sfumature di essere nomadi oggi. Un'opera in grado di raccontare temi potenti sottovoce e con gli sguardi, con una fotografia ponderata e una regia equilibrata.
PRO
- Le scelte narrative-documentarie e fotografiche
- Lo sforzo dell'esercizio di equilibrio e sensibilità non indifferenti
- Uno sguardo “fuori dal mondo” in movimento sui grandi temi di oggi
CONTRO
- L'arco narrativo della protagonista Fern
- I pochi dialoghi e i molti silenzi possono rendere difficoltosa la visione ad uno spettatore poco paziente