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In memoria di Peter Lindbergh, il fotografo di moda che scelse l’umanità

Ripercorriamo, un anno dopo la sua scomparsa, la vita di uno dei più grandi maestri di vita che la fotografia abbia mai avuto

Luca Dondossola di Luca Dondossola
3 Settembre 2020
17 minuti di lettura
Home Editoriali
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4settembre 2019. Ricordo tutto di quel giorno: lavoravo ancora come operaio in una ditta di metalmeccanica del mio paese e, come ero solito fare, mi alzai verso le sette, bevvi due caffè e andai a lavorare. Dopo un paio di ore mi fermai per andare in pausa caffè e sgattaiolai fuori dal capannone a fumare una sigaretta. Presi il cellulare in mano, andai su Instagram a fare un giro e vedere le novità, e mi apparse il post della morte di Peter Lindbergh, il fotografo che più avevo apprezzato insieme a Sebastião Salgado. Era scomparso il giorno prima, come recitavano le solenni parole scritte sotto l’immagine.

Vi lascio solo immaginare il mio senso di spaesamento, il pugno allo stomaco che ricevetti, il silenzio che d’un tratto si fece rumoroso e frastornante. Peter Lindbergh se n’era andato, Peter Lindbergh ci aveva lasciato, all’improvviso, senza avvisare, come un sussurro di poesia antecedente la notte più cupa. Il maestro che tanto mi aveva ispirato con i suoi ideali, con la sua scelta di valorizzare le persone in un ambiente asettico per definizione come quello della fotografia di moda, non ci sarebbe più stato. Il sipario era calato e io ero rimasto fermo, con la sigaretta in bocca che praticamente veniva fumata dal vento mattutino, a fissare quel maledetto post. Perso, stordito, vuoto. Solo. Ho sempre desiderato scrivere qualcosa sulla figura di Peter Lindbergh perché è stata una delle più importanti della mia vita, e non parlo solo per quanto concerne la fotografia, quindi mi piacerebbe, ad un anno esatto dalla sua morte, parlarvene qui, su FotoNerd. Vorrei parlarvi dell’uomo prima che del fotografo, delle ideologie prima che delle bellissime ed uniche fotografie. Vorrei spiegarvi perché Peter Lindbergh ha cambiato la mia vita ma anche la fotografia nel mondo. Vorrei parlarvi di un uomo che non è mai sceso a compromessi ma ha lottato con tutte le forze per portare in alto le sue idee, senza mai lasciarsi fermare dai tanti no ricevuti. Vorrei raccontarvi la storia di un uomo che è stato fotografo, e di un fotografo che è stato uomo. Vorrei raccontarvi la storia di Peter Lindbergh.

Peter Lindbergh: un Uomo, prima che un fotografo

Peter Lindbergh si è spento il 3 settembre 2019, all’età di 74 anni, dopo una carriera incredibile che l’ha visto firmare le più importanti copertine di moda di tutti i tempi. Ha fotografato le personalità più rimarchevoli del mondo, Peter, creando un movimento destinato a rimanere nella storia, a cambiare il presente e forgiare il futuro. Il suo punto di vista, il suo occhio fotografico, così autoriale, cinematografico e personale, l’hanno reso un maestro di vita prima che di fotografia.

Peter Lindbergh

Un maestro a cui ispirarsi non per diventare fotografi migliori, bensì per rendere il mondo un posto migliore. “Dovrebbe essere compito dei fotografi liberare le donne, liberare finalmente tutti, dal terrore della giovinezza e della perfezione“, scrisse nel libro Images of Women II, nel 2015. Queste brevi e concise parole riassumono perfettamente l’ideologia di Peter Lindbergh, un uomo che ha scelto di utilizzare il linguaggio fotografico per dare umanità alle persone, per dare dignità ai “soggetti” trattati come “oggetti” dal mondo della moda, uomini e donne visti come meri manichini da rivestire con abiti luccicanti ed estrosi, figure senza anima né carattere da posizionare davanti ad una macchina fotografica come statuette umane in un presepe. Questo non andava bene, non a Peter Lindbergh, non a colui che voleva dare dignità alle persone. Non poteva accettare questa apatia, il freddo gelo che avvolgeva un mondo che comunque amava e di cui si sentiva parte, quell’inferno fin troppo adornato da perle e addolcito da cose irrisorie. No, Peter non poteva accettarlo. Peter aveva un’idea divenuta sogno, poi un sogno divenuto realtà: trasformare il mondo della moda per sempre, cambiarlo, estirpandone le radici malsane per farlo diventare un posto migliore. Inizialmente faticò, dovette scontrarsi con una serie di “no” e di personalità che si opponevano alla sua ideologia. Dovette tornare a casa, colpito e frastornato da un mondo che non voleva cambiare pelle, da un’ecosistema ormai consolidato e fattosi bandiera fiera di quella che doveva essere l’idea di bellezza. Un’idea fittizia, costruita sulle fragili fondamenta della menzogna.

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“Dovrebbe essere compito dei fotografi liberare le donne, liberare finalmente tutti, dal terrore della giovinezza e della perfezione“

Peter Lindbergh

Io dico sempre questa frase: “siamo cresciuti con le pubblicità che ci hanno detto quali macchine comprare per sentirci fighi, quali vestiti indossare per non sembrare degli sfigati, quali donne “scopare” ed ammirare perché intrise di quella bellezza di plastica che tanto ammalia gli occhi e poco conquista il cuore“. Si, l’ho sempre detto e non ho paura di ripetermi in un contesto come questo. Siamo assuefatti, ma non è colpa nostra: siamo le persone che vengono cresciute, ed è normale, date le influenze che ci vengono propinate fin da bambini, crescere in questo modo. Non ne faccio una colpa delle persone, piuttosto di un sistema che da sempre ci plagia facendoci piacere quello che lui decide che deve piacerci. E noi, stupidi ed immacolati come solo da bambini sappiamo essere, finiamo dritti nel tranello ordito. Ci cadiamo dentro in pieno, cambiamo, ci impuntiamo opinioni non per forza sbagliate ma indotte da altri, radicate nei meandri più reconditi del nostro cervello finendo per diventare quello che loro vogliono farci diventare. Poi, crescendo ed ottenendo quella che io definisco “coscienza di sé stessi”, possiamo arrivare a farci una nostra idea sul mondo. Non tutti ci riescono, molti restano attaccati alle iconografie innestate, ma alcuni ce la fanno ed iniziano a decidere con la loro testa, iniziano a prendere in mano la loro vita. Mi rendo conto che questo pensiero possa far storcere il naso a molti di voi, accetto il fatto che possiate non comprendere il mio punto di vista, ma questo è e vado fiero delle mie opinioni. Dovete essere sempre fieri delle vostre idee, nonostante il mondo voglia abbattervi, nonostante le persone vi si mettano contro. Nonostante tutto. Le vostre idee sono il sale della vostra personalità, e voi dovete combattere per esse. Questo, Peter Lindbergh l’ha fatto. Ha combattuto, ha perso, poi ha vinto e ha creato un movimento che ha cambiato per sempre il mondo della fotografia di moda. Ha tracciato una linea di confine con la sua venuta, un prima e un dopo, un punto di rottura definitivo dal quale non era più possibile tornare indietro.

Prima di spiegarvi perché ho amato Peter Lindbergh e la sua idea di fotografia, mi sembra d’uopo raccontarvi la sua vita, parlarvi dei suoi trascorsi giovanili, delle strade percorse e che l’hanno portato, non senza fatica, a diventare il maestro che ci ha salutati per sempre il 3 settembre 2019. Vorrei raccontarvi la storia dell’uomo che combatteva il fotoritocco pesante, che odiava chi plagiava il viso delle persone in una pratica tanto usata quanto spaventosamente chimerica.

Peter Lindbergh: biografia

Peter Lindbergh nacque il 23 gennaio 1944 a Leszno, che nonostante oggi sia parte della Polonia ai tempi era inglobata dalla Germania, con il cognome poi abbandonato di Brodbeck. Dopo pochi messi dalla nascita, la sua famiglia fu obbligata a lasciarsi dietro tutto per via dell’invasione del paese. Crebbe quindi a Duisburg dove, per un periodo, iniziò a lavorare come vetrinista in un grande magazzino. Il tempo passava, lui cresceva ed iniziava sempre più ad appassionarsi all’arte, fino a quando, raggiunta la maggiore età, negli anni anni sessanta decise di recarsi prima in Svizzera per il servizio militare e poi di trasferirsi nella fredda Berlino per studiare presso l’Accademia di Belle Arti, che non finì perché, a detta sua, preferiva cercare attivamente le ispirazioni del suo idolo Van Gogh piuttosto che dipingere i ritratti e i paesaggi che i professori gli imponevano. In seguito visitò la Francia, dove rimase per circa un anno ad Arles, prima di tornare a viaggiare e riempire il suo taccuino di viaggio con mete mediterranee come la Spagna e il Marocco, tutte visitate categoricamente in autostop. Dopo i viaggi decise di tornare a Berlino dove, finalmente, da uomo nuovo quale era dopo tutti i suoi viaggi, il sodalizio con l’arte iniziò a consolidarsi. Lì scoprì la fotografia, per pura casualità. Le parole che disse al Guardian nel 2016 furono le seguenti: “Mio fratello ebbe dei bambini e io decisi di fotografarli. Fu allora che acquistai la mia prima macchina fotografica e iniziai a scattare. C’è qualcosa di incredibilmente inconscio nei bambini, ho appreso davvero tanto”.

Peter Lindbergh

La prima vera esperienza lavorativa per Peter Lindbergh fu affiancare come assistente il fotografo tedesco Hans Lux, che seguì per due anni prima di aprire il suo studio a Düsseldorf, nel 1973. In seguito fu contattato per la sua prima campagna pubblicitaria da VW Golf, ma dovette attendere fino al 1978 per realizzare il suo primo servizio di moda per la rivista Stern, per la quale a quei tempi lavoravano fotografi del calibro di Helmut Newton, Guy Bourdin e Hans Feurer. Quello stesso anno, quasi a sorpresa, decise di trasferirsi a Parigi per perseguire la sua carriera. Fin da subito la sua ideologia fotografica era ben chiara: raccontare le donne e gli uomini per quello che erano veramente, distaccandosi completamente dal fittizio mondo dell’aberrante e solitaria apatia modaiola. Non voleva ritoccare i suoi soggetti pesantemente, perché l’anima e i trascorsi delle persone vivono sui volti, libri ricolmi di storie chiamate rughe. Inizialmente le cose non andarono benissimo: moltissime testate decisero di non pubblicare i suoi lavori perché considerati poco consoni agli standard usuali, lontani anni luce dalla concezione di un mondo che fondava i suoi pilastri sull’idea di perfezione. Nonostante questo, Peter Lindbergh non si arrese e proseguì il suo cammino. Quando si propose a Vogue USA portando una serie di ritratti ad alcune modelle mentre si comportavano da persone sorridenti e lontane anni luce dalla compostezza, i redattori della rivista decisero di rispedirlo a casa proprio per la sua visione, poggiando però senza rendersene conto il primo grande tassello per la sua definitiva consacrazione: quando le redini della rivista cambiarono e subentrò Anna Wintour, ella ritrovò le fotografie di Peter Lindbergh in un cassetto e fu amore a prima vista. Il nuovo capo contattò quel fotografo paffutello nato a Leszno, e da quel giorno lui non si fermò più. Per “vendicarsi”, Peter richiamò ancora le stesse ragazze e realizzò uno dei servizi fotografici più iconici della sua carriera (per non dire della fotografia di moda), con loro che indossavano la sola camicia sulla spiaggia mentre si buttavano una sopra all’altra come intente a giocare. Quella fu la prima copertina per Vogue USA di Peter Lindbergh. Era il 1988. Fu la prima, la prima di tante altre.

Peter Lindbergh

Nel suo percorso Peter Lindbergh ha fotografato le top model più importanti di sempre, diventando il capostipite dell’era delle Super Top Model. Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Kate Moss, Cindy Crawford: fare una lista delle persone fotografate da Peter Lindbergh sarebbe impossibile, davvero. Molte di loro si sono consacrate proprio grazie a lui, diventando le personalità che oggi conosciamo. Dalle top model alle attrici e agli attori, dalla rivista Stern ad essere il fotografo che ha realizzato più calendari Pirelli, ad uno dei più amati dal mondo della fotografia ritrattistica e da testate quali Vogue, Elle, Vanity Faire Harper’s Bazaar. Un fotografo che, dal suo arrivo, ha tracciato un solco indelebile, un cambiamento ineluttabile, un nuovo punto di vista mirato a valorizzare le persone prima dei vestiti, a dare importanza all’umanità prima che a relegarla come mera presenza per idolatrare vesti tanto belle quanto, in fondo, destinate a scomparire con lo scorrere del tempo. Il tutto, sempre con quel suo  bianco e nero unico ed inarrivabile, influenzato anche dalle aree fredde ed industriali nelle quali era cresciuto.

Peter Lindbergh: a different vision on fashion photography

La visione di Peter Lindbergh si è contraddistinta, fin da subito, per due costanti: l’imprinting fortemente cinematografico e un bianco e nero magistrale. Se scatto principalmente solo in monocromatico lo devo a lui e a Sebastião Salgado, l’altro grande fotografo che ha fortemente influenzato le miei idee. L’occhio fotografico di Peter va oltre l’attrezzatura, quella che ci permette di fotografare ma che non è in grado, da sola, di restituirci immagini con un’anima. Non vi dirò quale brand utilizzava Peter, né quale lente montava per ottenere i suoi incredibili scatti; non sono fattori rilevanti. Anzi, a dirla tutta sono le cose meno importanti ed è per questo motivo che in questo editoriale non troverete nessuna allusione ne spiegazione tecnica del suo modo di fotografare. Non starò a scrivervi cose tipo: “utilizzava questa lunghezza focale che, abbinata a questo corpo macchina, gli permetteva di ottenere questo effetto”. No, non scriverò futilità del genere e, se erano le cose che volevate sentirvi dire, potete mettervi il cuore in pace. Il mezzo, per quanto importante, resta un mezzo e come una macchina da scrivere non sa realizzare un buon romanzo da sola, nessuna fotocamera al mondo è capace di scattare una buona fotografia se non è tenuta in mano da un bravo fotografo. Lo stile di Peter Lindbergh trascende ogni confine, supera la mera estetica e si professa come vangelo, come unicum, fiaccola di un’idea divenuta fiamma e, col tempo, incendio. Spesso dicono che per ricostruire serva distruggere, ed è vero: Peter Lindbergh, con le sue idee, ha preso e annichilito la radicata concezione di fotografia di moda e l’ha plasmata a suo piacimento, evolvendone il concetto più intrinseco e meno valutato. L’umanità delle sue fotografie non è da ricercare in un 100mm f/1.4, in una full frame o medio formato. No, nel senso più assoluto. Queste sono discussioni da bar, che per l’amor del cielo ci stanno ed è doveroso affrontare in certi contesti, anche per aiutare chi si sta approcciando ad un determinato genere per la prima volta e cerca la strumentazione più adatta, ma non bisogna focalizzarsi su questo.

Un altro grande fotografo che non ha bisogno di troppe presentazioni, ossia Henri Cartier Bresson, una volta disse che anche una scimmia con una polaroid in mano sarebbe stata in grado di scattare una fotografia. Sapete qual è il problema? Che aveva ragione: una scimmia può schiacciare il pulsante di scatto e, di conseguenza, realizzare una fotografia. Non è questo il punto, non è pigiare un pulsante, non la macchina fotografica, non è l’obiettivo utilizzato. La macchina fotografica non fa la foto, è il fotografo che la fa. Lo strumento è solo uno strumento, un mezzo che ci permette di ottenere un risultato, di esternare le nostre emozioni. La fotografia è un linguaggio e, come per uno scrittore è essenziale avere una penna per scrivere, per un fotografo è essenziale avere una fotocamera per fotografare. Nessuno, qui, vuole mettere in dubbio l’importanza dello strumento, ma bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e riconoscere come la sola camera “figa” e “costosa” non equivalga all’ottenere una buona fotografia. Ho visto fotografi realizzare immagini sbalorditive con le peggiori entry level sul mercato, e non sto scherzando. L’idea vince sempre, su tutto e tutti. L’idea valica i confini, le montagne più ripide ed insidiose, i cancelli degli inferni più brutali. Le idee vincono, ed è per questo che Peter Lindbergh è diventato Peter Lindbergh.

Peter Lindbergh

La visione di Peter Lindbergh è sempre stata unica, capace di creare un movimento che ha preso sempre più piede nella fotografia di moda. Vedere modelle come Kate Moss, considerate perfette dalla società, senza trucco e senza nessuna finzione a separarle dalla macchina fotografica è stato un cambiamento epocale che ha plasmato il modo di vedere, percepire e comprendere la figura femminile. Lindbergh si è incaricato di divenire profeta del cambiamento, senza mai chiedere nulla in cambio e senza mai vantarsi della sua forza comunicativa che, probabilmente, equivaleva alla sua fragilità interiore. Perché dico questo? Ve lo spiego in maniera molto semplice, sperando possiate seguirmi: tutte le convinzioni, per quanto forti siano, nascono dalla fragilità, dalla paura, dall’impossibilità di avere certezze. La visione di Peter Lindbergh ha saputo prendere piede solo perché la sua sensibilità era più grande della sua bravura, e le persone sensibili sono destinate a provare emozioni che gli altri non possono capire. Senza quella sensibilità e quella fragilità divenuta armatura e forza non sarebbe stato in grado di cambiare il mondo. Non è un caso se, guardando alcuni video backstage online, si vedono modelle dargli dei baci affettuosi e degli abbracci sinceri: Peter Lindbergh, prima che fotografare i suoi soggetti, ne diventava amico, confidente, padre, fratello, amante. Non era il fotografo per il quale posare e basta, era la persona che poteva raccontare al mondo chi erano veramente, che poteva spogliarle finalmente da quelle vesti di illusoria idealità, che poteva ascoltarle e dare loro dei consigli sinceri. Era l’uomo che poteva farle sentire libere, che poteva spogliarle senza fargli togliere i vestiti.

Questo, per concludere, è da ricercare anche nella scelta del bianco e nero. Un fotografo una volta disse che se si vogliono fotografare i vestiti di una persona bisogna utilizzare i colori, ma se si ha l’intenzione di catturare la loro anima bisogna scattare in bianco e nero. Per quanto si possa dibattere a riguardo, la scelta del monocromatico è servita a Peter Lindbergh per raccontare le persone prima di tutto il resto, per far sì che l’osservatore si concentrasse solamente sull’unica cosa che non manca mai nelle sue immagini: l’umanità. Ovviamente il fatto di scattare quasi sempre in questo modo (anche se per alcuni lavori ha scelto i colori) è servito anche per creargli uno stile riconoscibile, ma guardando le sue immagini si percepisce chiaramente che l’intenzione primaria non era questa.

Peter Lindbergh

Una delle frasi più belle affermate da Peter l’ho sentita in un video backstage di qualche anno fa, mentre fotografava alcune modelle. Guardando una donna ormai arrivata ad essere immortalata più volte da lui, le disse: “Questa è la miglior fotografia che io ti abbia mai scattato, e lo sai che scatto tanto. Sai perché? Questa immagine ha tutto quello che non avevi vent’anni fa. Ha la tua vita“. Fermatevi un secondo, rileggete e chiudete gli occhi: la forza di queste parole è disarmante.

Peter Lindbergh: cos’ha significato per me

Sono conscio di aver scritto tanto, molti di voi probabilmente se ne sono andati prima di arrivare a questo punto dell’editoriale dedicato a Peter Lindbergh, però ho sempre sognato di parlare di questo maestro di vita e, ora, dopo che vi ho raccontato della sua importanza nella fotografia di moda, vorrei parlarvi un attimo di quello che ha significato per me, per la mia vita e la mia fotografia. Quando iniziai a fotografare non conoscevo Peter Lindbergh, non sapevo nulla della sua fotografia e dalla sua visione. A dire il vero, il mio approccio con la fotografia ritrattistica è arrivato molto tardi: inizialmente, dato che ero rimasto ammaliato da questo mondo grazie a Steve McCurry, Sebastião Salgado e Bresson, mi sono lanciato nella street photography. Nonostante amassi farla, e ancora oggi mi diletto nel realizzarla, sentivo che qualcosa mancava, che un vuoto feroce veniva a trovarmi prima di andare a dormire per poi ripresentarsi non appena sveglio. Cambiai genere fotografico, mi lanciai nel ritratto, provando a fare cose molto patinate. Anche li, però, qualcosa continuava a non convincermi, a non darmi soddisfazione.

Peter Lindbergh

Poi, fugace come un bacio prima di prendere il treno d’addio, mi imbattei in Peter Lindbergh, vidi alcune sue fotografie, e tutto cambiò: capii, in quel preciso momento, che quello che stavo facendo, seppur esteticamente bello, era inutile, privo di umanità, silenziosamente futile e logorante per la mia persona. Non apprezzavo chi mi si parava di fronte, ma lo utilizzavo come mero oggetto per arrivare ad uno scopo; mi vergogno, onestamente, a ripensarci. Non avevo interesse nelle persone, volevo solo portare a casa il risultato. Ho iniziato a studiare Lindbergh, ad apprezzarne le ideologie, a farle mie. Poco dopo, la conferma arrivò: quello che sbagliavo, e che sbagliano tantissimi giovani fotografi, è adattarsi a quello che la società vuole. Io mi ero sottomesso, ero sceso a compromessi con le mie emozioni, avevo deciso di allontanarle e di fotografare le persone per avere “successo”, per farmi dire “che bella questa foto, mamma mia!”. Sbagliavo, e me ne vergogno un sacco. Il primo passo per diventare dei buoni fotografi è non cercare il consenso altrui. I miei scatti erano belli, non lo dico per vantarmene, ma vuoti. Erano privi di qualsiasi forma, di quell’umanità che in fin dei conti è il sale della terra. Ho sempre avuto una forte sensibilità ma avevo deciso di scartarla per paura, avevo scelto di fare quello che tutti chiedevano per il mero egocentrismo personale. Ero diventato, a tutti gli effetti, un automa. Scattavo, scattavo, scattavo. Scattavo. Producevo, producevo, producevo. Producevo. Eppure? Tutto inutile, non trovavo il mio posto nella fotografia, rimanevo silente guardando l’ombra e cercando di capirmi. L’arrivo di Peter Lindbergh è stato trascendentale, potrei addirittura paragonarvelo ad un treno che mi ha colpito direttamente in faccia. Quelle idee che avevo sempre avuto e che avevo accantonato per “piacere” erano li, che mi guardavano, che mi sussurravano “puoi farcela”, che mi consigliavano di fare quello che volevo, e non quello che era dovuto.

Trovata la mia definitiva dimensione, tutto cambiò: iniziai a fotografare per il piacere di farlo, per fare quello che desideravo, per raccontare le persone e la loro storia. Ho cercato di portare questi concetti anche in ambiti più difficili, come nelle sessioni per le agenzie di moda, senza troppo successo. L’obbligo, la costrizione, i paletti imposti: troppe cose che non mi hanno permesso di esprimermi, ma non gliene faccio una colpa. Le agenzie, viste come un punto di arrivo per tanti fotografi amatori, non hanno interesse in te: sei un numero e, se non ci sei tu, ci sarà un altro fotografo a prendere le tue redini. Questo l’ho imparato e, seppur mi dessero lavoro, ho scelto di non collaborarci più proprio per mantenere la mia identità. L’avevo già messa da parte una volta, non l’avrei mai fatto una seconda. Ora sapevo, ora capivo. Comprendo che non sia facile, che è molto più facile scendere a compromessi che rimanere sempre sé stessi. Io l’ho fatto e, onestamente, per la persona che sono, non posso farcela. Non posso mettermi li, seduto ad un tavolo, a dire sempre “ok”. Non sono fatto così, alcuni amici mi definiscono ribelle, non posso sentirmi rinchiuso tra sbarre, nemmeno se fatte di denaro. Sono conscio che questa è la mia personalissima esperienza, però ci tenevo a raccontarvela. Quando vi dico che Peter Lindbergh, prima che un fotografo, per me è stato un maestro di vita è proprio per questo motivo, perché mi ha insegnato a credere nelle mie fragilità, a prenderle e trasformarle in una armatura con la quale affrontare il mondo, le sue bruttezze e le sue ingiustizie. Peter Lindbergh mi ha insegnato ad essere una persona migliore, a capire per capirmi, a conoscere per conoscermi. Ad amare per amarmi. L’uomo prima del fotografo, il fotografo dopo l’uomo. Questo è l’importante, questa è l’essenza dell’umanità e di un linguaggio che deve sempre mirare a raccontarla, a denudarla dalla perfezione per mostrarne la perfetta imperfezione. Questa è fotografia, e la fotografia è imperfetta perché imperfette sono le persone e imperfetta è la vita stessa.

Peter Lindbergh

Ho iniziato, grazie a Peter Lindbergh, a parlare di più con le persone che fotografavo, a conoscerle, ad entrare nella loro vita per comprenderle e rappresentarle al meglio. Molte delle ragazze che ho fotografato le sento tutt’ora, spesso e volentieri. Ci scambiamo opinioni, parliamo del più e del meno, ci confrontiamo su determinati argomenti, andiamo a berci una birra o mangiarci qualcosa. Questo è quello che mi ha insegnato Peter Lindbergh. Mi ha insegnato a mettere le persone prima di tutto il resto, imparare a comprenderle per comprendermi e instaurare un rapporto che va oltre la mera fotografia. Quando esco a scattare spesso sono disinteressato del risultato, mi basta conoscere chi ho davanti, capire perché quel giorno si trova in un determinato status, perché è li a dedicarmi il suo tempo. La fotografia di ritratto è un dare per ricevere, da entrambe le parti. Nessuno può pensare di avere qualcosa in cambio se non da, bisogna sempre mettersi a nudo per confrontarsi nel migliore dei modi e raccontarsi. Questa è la cosa più difficile di tutte e quella che fa più paura ai fotografi. Bisogna accettare la probabilità di non portarsi a casa niente, per farcela e portarsi a casa tutto. Bisogna essere consci che i fotografi non sono tutto, ma un piccolo tassello in quella che è l’esplorazione dell’umana realtà, della costante ed inesorabile fragilità della certezza. E questo l’ho imparato grazie a lui, grazie a Peter.

Peter Lindbergh

Peter Lindbergh: arrivederci, maestro

Arrivo alle parole finali di questo editoriale in memoria di Peter Lindbergh e provo emozioni contrastanti: non vi nego che ho un po’ di magone, forse una lacrimuccia mi è pure scappata durante la scrittura, ma sono anche felice di essermi finalmente sfogato su questo maestro di vita. Come concludere? Eh, è davvero difficile.

Peter Lindbergh

Posso chiudere questo articolo semplicemente mettendomi a nudo, rivelando le mie emozioni e le sensazioni che provo in questo momento. Non ci sarà un nuovo Peter Lindbergh, perché la fotografia è personale e intima. Si può prendere ispirazione, essere concordi con l’ideologia di un’altra persona, ma non si può essere la stessa cosa. Questa, in fin dei conti, è la bellezza della fotografia e l’unicità degli esseri umani.

Peter Lindbergh

Sono qui che penso a come chiudere in modo efficace l’articolo, ma non mi viene nessuna frase ad effetto. Forse, per finire in bellezza, è abbastanza lasciarvi con le sue fotografie, con la voce di un uomo che ancora oggi riecheggia negli sguardi immortalati. Vorrei però salutarvi con una delle frasi più belle e potenti mai affermate da Peter, una che nuovamente racchiude tutta la sua umanità e la sua percezione della bellezza:

“È stata una scelta etica, prima che estetica. L’uso indiscriminato del ritocco ci ha abituati a considerare reali personaggi depauperati di tutta la loro umanità; uomini e donne ai quali vengono cancellati i segni del tempo e dell’esperienza dal volto. Sono convinto che la vera bellezza nasca solo dall’accettazione di sé, dalla consapevolezza di chi siamo veramente: è una questione di identità”.

Io, grazie a te Peter, ho capito chi sono. Ho capito dove abita la bellezza, dove vive l’umanità. Mi sono accettato. Grazie di tutto Maestro, ci rivedremo quando anche io vedrò il sole sorgere sul mare e il silenzio diventare musica.

Peter Lindbergh
Peter Lindbergh

Peter Lindbergh

Peter Lindbergh

Peter Lindbergh
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Luca Dondossola

Luca Dondossola

Fotografo di ritratti, matrimoni, reportage, street, prodotti. Videomaker e content creators. Amante delle serie tv e del cinema, tipo che devo andarci almeno una volta a settimana o inizio a sentirmi male e avere le allucinazioni. Insomma, direi che faccio fin troppe cose e infatti non ho mai il tempo di rilassarmi (non è vero, per quello resto sveglio di notte e collasso la mattina). Cerco di fare il serio il più possibile, ma devo ammettere che non mi riesce benissimo. Tanto diversamente alto quanto costantemente alla ricerca di nuove idee, prima o poi lascerò tutto per vivere in pace in qualche isola sperduta affianco le coste irlandesi. Nel frattempo però scrivo articoli, per condividere con voi i miei pensieri (e non è detto che sia un bene).

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